Baudelaire

Qualcosa di straordinario dev’essere successo in Occidente nella seconda metà dell’Ottocento. Si può infatti dire che, se l’umanità ha continuamente progredito nella conoscenza, e soprattutto nella scienza e nella tecnica, nel Diciannovesimo secolo il progresso ha subito una specie di brusca accelerazione scientifica e sociale. Le nuove conoscenze, che sembravano precedentemente un privilegio soprattutto delle classi alte, sono state messe a disposizione di un numero crescente di persone. Si pensi alla medicina. Non a caso alcune delle filosofie dominanti in quel secolo, che furono anche correnti vaste di pensiero e di mentalità diffusa, hanno nome molto indicativi: ad esempio Positivismo, Scientismo, Razionalismo, Modernismo e, poco prima, Illuminismo.

Gli uomini dell’Ottocento dovevano dunque essere assai ottimisti sulle possibilità che le scoperte a ripetizione in tutti i campi della scienza schiudevano al progresso. Diciamo pure che, per loro, l’ultimo assoluto -una volta eliminato dall’orizzonte dell’Occidente l’assoluto religioso, cioè Dio- era la ragione umana, in cui generalmente credevano. La medicina avrebbe sconfitto tutte le malattie; la tecnica avrebbe reso la vita comoda e semplice; la politica avrebbe civilizzato, portato la giustizia e cancellato la guerra in tutti i paesi del mondo. La belle epoque che si visse in Europa e soprattutto in Francia a cavallo tra Otto e Novecento ne è un’espressione esemplare. La torre Eifel, monumento tutto sommato inutile e incomprensibile -nonché bruttino e, all’origine, provvisorio, segnacolo, com’era, dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900-, è intelligibile solo come inno dell’uomo moderno alle sue capacità tecniche.

In questo clima chi affermò esattamente il contrario furono i poeti. Forse per questo essi furono maledetti, cioè ostracizzati, messi al margine della società, della conoscenza e, da allora, del mercato. Ciò che i poeti, infatti, pensavano dell’uomo contemporaneo era perfettamente in controtendenza, come mostra chiaramente questa poesia di Charles Baudelaire:

I ciechi

Contemplali, anima mia; sono davvero orribili!
Simili ai manichini; vagamente ridicoli;
Terribili, strampalati come i sonnambuli;
dardeggiano non si sa dove i globi tenebrosi.

I loro occhi, da cui la scintilla divina è fuggita,
Come se guardassero lontano restano alzati
Al cielo; giù verso il selciato mai li si vede
Chinare pensosamente la testa appesantita.

Attraversano così il nero illimitato,
Questo fratello del silenzio eterno. O città!
Mentre attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,

Presa dal piacere fino all’atrocità,
Guarda! anch’io mi trascino! ma, più ebete di loro,
Dico: Cosa cercano nel Cielo, tutti questi ciechi?.

Baudelaire descrive i suoi concittadini, i parigini, ed essendo Parigi la città a cui tutto il mondo guardava come esempio di novità e civiltà, si può dire che il poeta descrive l’uomo contemporaneo. Com’è quest’uomo? Cieco, perché “la divina scintilla è fuggita” dai suoi occhi. È un uomo che non ha più nulla d’assoluto, né il divino (gli occhi “come se guardassero lontano restano alzati/al cielo”) né la realtà, “il selciato”; ricordiamo che questa poesia è anche definita “simbolista” per la forte valenza simbolica di cui le immagini evocate sono caricate. Così mentre l’umanità vive in una sorta di festa continua (“O città!/ Mentre attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti”) ai poeti toccherebbe il compito di richiamarla all’assoluto, al bisogno di una verità condivisa e universale. Senonché il poeta è “più ebete” dei cittadini, è come un albatros ferito di un’altra celebre poesia di Baudelaire che zoppica goffamente sulla tolda della nave mentre i marinai si fanno gioco di lui. Al poeta rimane quindi questa nostalgia dellassoluto che genera in lui un senso di mancanza, di vuoto, di noia, di tristezza: lo “spleen” dello stesso Baudelaire.