Paul Celan, la brace della storia

1. Cosa ci rimane di Celan? In fondo la sua non-paura di dire. In questo senso forse la sua furia metaforica va riconsiderata in modo più semplice e cristallino perché se l’effetto, che il continuo spostamento di senso della poesia di Celan provoca, sembra riprodurre quello della Enge (la distruzione dello spazio vitale, che dal 1941 il poeta provò di persona nel ghetto di Czernowitz), non è dato però da una volontà di occultamento, né di ermetismo o simbolismo, dispositivi ai quali d’altronde Celan avrebbe sempre rifiutato di essere anche solo avvicinato per negazione; sembra invece venire da un’incondizionata adesione alla storia -personale o sociale, non importa. Quante volte è immediatamente rintracciabile, nella sua biografia, la vicinanza cronologica tra evento e testo? La morte del primo figlio… la visita a Nelly Sachs… il viaggio in Israele, cuore di Dimora del tempo…

2. La furia metaforica di Celan è forse allora una furia di adesione alla storia; potrei dire alla realtà, ma non sono sicuro che possa andar bene. Il fatto è che per Celan la storia è stato un grande fuoco e aderirvi ha significato bruciare. Anzi è un fuoco passato, ma con le braci ancora vive, come nell’episodio del ’68, dell’incontro con i giovani parigini della contestazione che, per provocare la polizia, fanno il saluto nazista, sconvolgendo uno Celan inizialmente coinvolto. Quella brace opererà continuamente e segretamente in lui, fino al tuffo finale, profetizzato da una poesia di otto anni prima. La Todesfuge è avvenuta correndo con la testa girata all’indietro, finché essa non l’ha raggiunto.

3. Ciò che è oscuro, allora, non è la poesia ma la storia, soprattutto nella sua costante metafisica più evidente: il dolore. Ciò che è oscuro è il reale. La poesia di Celan non si è mai sottratta all’imperativo di aderirvi, di dirlo, di dire tutto ciò che le forze della parola, che forse era il suo Supernulla (Übernichts), gli permettevano di toccare. Ma si può dire tutta la storia? Si può mantenere sempre quella che per Celan era la forma più umana di preghiera, l’attenzione? Anche la forma più alta di solitudine stilistica, di dignità di attenzione, necessita l’aiuto di un criterio e di un metodo cioè, alla fine, di un popolo. Non credo che Celan disdegnerebbe questa ipotesi, perché la sua poesia è estrema proprio nello “sporcarsi” con una storia.

4. Forse anche per questo la sua vita e la sua poesia mi sembrano più ebree di quel che a prima vista si direbbe e ciò a prescindere dalla gran quantità di citazioni bibliche, di episodi della persecuzione in tutti i secoli, di salmi, di nomi, di parole yiddish. Il “non avere paura di dire” è un lavoro di abbattimento di ogni difficoltà di avvicinamento all’incontro. Dirà Celan nel 1960 a Darmstadt: “Il poema è solitario. Solitario e in cammino. Chi lo scrive gli rimane inerente. Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro – dentro il mistero dell’incontro?”. E le difficoltà da abbattere per rendere possibile “il mistero dell’incontro” sono di tutti i generi: il rapporto conflittuale col padre (e la sua ortodossia) troncato dalla deportazione dei genitori, la tragedia personale, la recrudescenza dell’antiseimitismo tedesco negli anni Cinquanta, la depressione…

5. Celan è stato raggiunto nella sua fuga. La morte ha corso più veloce, vanificando il tentativo nobilissimo della sua poesia. La strenua difesa della voce che dice il reale non è bastata ad impedire l’ultima fuga, stavolta in compagnia dell’inseguitrice. Nessun mito, per carità, in questo finale. Sarebbe ingiusto, mentre l’unica giustizia è la preghiera, così come la chiedeva Celan. Ciò che non gli è avvenuto è quel miracolo, che tutta la sua poesia ha letteralmente bramato, fino a diventare secca nella voce e quasi spuntata dal reale, come un’amante che cerca di abbracciare chi la rifiuta. Tutti gli incontri, le amicizie vaste, feconde di letteratura e durature non hanno valso la pena. Chissà quante volte Celan è stato sfiorato; ma quella “pietra” che ostruiva la vista così tanto ha forse definitivamente ammutolito ogni possibile risposta che c’è, perché tante volte Celan l’ha detto: “Ihr Dome.//Ihr Dome ungesehn,/ihr Ströme unbelauscht/ihr Uhren tief in uns”.