Dante letterale

Lo sfondo della letteratura moderna è una cristianità moribonda. La secolarizzazione del mondo tocca il culmine della generazione che precede il primo romanticismo. Ne consegue che la letteratura moderna non è un’insurrezione contro il cristianesimo, ma contro chi ha usurpato la sua eredità. […]. Dal romanticismo in poi la letteratura non è post-cristiana, ma pre-cristiana. Il suo punto di partenza non è il cristianesimo, ma la sua negazione. Né Blake, né Hölderlin, né Vigny scrivono contro il cristianesimo, bensì contro un mondo caratterizzato dall’assenza del cristianesimo”.
Nicolàs Gòmez Dàvila

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Nell’epistola a Cangrande della Scala Dante afferma che la Divina Commedia è polisemica, distinguendo il senso letterale da quello che si ha attraverso la lettera (“per significata per litteram”). Declina poi il secondo in “allegoricus sive moralis sive anagogicus”; dice inoltre che il senso letterale è anche storico e, prendendo esempio dal Salmo CXIII, quello sull’uscita d’Israele dall’Egitto, fa coincidere il senso storico o letterale con la dichiarazione di un evento. Ma cosa è la dichiarazione di un evento nella Divina Commedia? L’evento storico, lì, cos’è? Il viaggio attraverso i regni oltremondani non è forse immaginario? Il poeta e dantista Vittorio Cozzòli ritrova piuttosto l’evento concreto nel senso anagogico, mostrando scientificamente, e dati alla mano, la possibilità di un’esperienza sciamanica di Dante. Ma cosa significa il senso letterale, può essere il solo interpretare la lettera? E perché allora Dante aggiunge alla sua spiegazione la nozione di storico?

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Il senso letterale è il primo incontro che un italiano medio d’istruzione superiore ha con la Divina Commedia. Il primo ricordo di Dante a scuola è quella fatica di ascoltare la lettura del professore e annotare, con la matita, tra le righe, con asterischi improbabili e frecce che andavano in tutte le direzioni, il significato letterale dei canti proposti dall’insegnante; il primo approccio, coincideva essenzialmente con una ricostruzione linguistico-filologica. Ad esso seguivano gli altri sensi, attraverso la spiegazione di una similitudine, di un’allegoria o di un collegamento storico. Però Dante cambia con noi. A chi ha la pazienza, la fortuna o anche solo il tempo di continuare un dialogo con lui, viene data una crescente immedesimazione che porta all’aprirsi di uno scrigno impensato. Già il Dante letto all’università fu diverso e più utile, più compagno di strada e di pensieri. E tutti i sensi (allegorico, morale, anagogico) sono diventati il teatro di una ricerca a tutto campo.

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Mi capita da un po’ di anni, intorno al periodo di Pasqua, quando la primavera comincia a farsi tangibile, di tornare a Dante, per leggerne almeno una cantica. È un appuntamento di una misteriosa puntualità. Può esserci stata un’occasione di lavoro, come l’incarico a scrivere le introduzioni ad alcuni canti del Purgatorio per un’edizione della BUR di due anni fa, o la riflessione di adesso, o più semplicemente il desiderio personale, forse “umano”, di tornare a una poesia che sento sempre più fondante il mio volto. Fatto sta che verso aprile, in coincidenza col periodo in cui Dante fece letteralmente il viaggio della Commedia, mi accade di ripercorrerne almeno una cantica e di immedesimarmi sempre più facilmente col suo viaggio. Chissà se durerà… Intanto la frequenza ha tolto l’assillo del senso letterale-filologico e permesso, dopo l’attraversamento degli altri sensi, di gustare con sempre maggiore immediatezza il senso letterale-storico, che è poi ciò che indica Dante nell’epistola a Cangrande. Adesso c’è una possibilità di cominciare pur vagamente a capire cosa esso sia veramente.

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Davide Rondoni, in un saggio pubblicato in Non una vita soltanto da Marietti, parla della Commedia come di un’opera in cui avviene il movimento della poesia. Citando Luzi, afferma che c’è in Dante la forza dell’immedesimazione con ciò che sta succedendo nel racconto poetico: “La Commedia non è il resoconto di un viaggio, è quel viaggio” dice Rondoni. Io credo che nulla ci vieti di pensare che quell’immedesimazione sia ciò che Dante, ed ogni buon poeta, chieda ad ogni vero lettore. La comprensione della poesia non avviene quando si trova una sovrastruttura di pensiero da applicare all’opera, per farla rientrare in una categoria o in un canone che funga da chiave di lettura. Comprendere un poeta è tanto più facile, quanto più la sua parola facilita un’immedesimazione e il lettore è disponibile a compiere nella sua immaginazione ciò che è avvenuto durante l’atto creativo dell’autore. La poesia racconta un evento che necessita di essere rispettato dal talento del poeta e dalla disponibilità del lettore. Occorrerà qui prendere in più seria considerazione l’idea di esperienza che Rondoni pone nell’introduzione al suo libro, un’idea molto più scientifica di quanto si pensi, soprattutto quando si parla di letteratura. È a quel livello che, credo, si può situare la lettura letterale di Dante; un livello che non ha a che fare solo con una spiegazione della lettera, ma con un vivere alla lettera ciò che indica la poesia.

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C.S.Singleton, altro autore citato da Rondoni, afferma che lo schema centrale della Commedia è la conversione, come ancora testimonia esplicitamente la lettera a Cangrande. La Commedia è un viaggio, un’esperienza di conversione. A questo chiama il lettore, è questa la sua origine e il suo scopo dichiarato. È poi superfluo ricordare che la conversione a cui Dante allude non è vaga, ma è esattamente la conversione al cristianesimo. Milo De Angelis, in una delle sue fulminee intuizioni, ha sostenuto che “il principio animatore che lo percorre (il Poema) interamente è l’idea di Salvezza” aggiungendo poi mirabilmente: “Illeggibili, per me, i poeti in cui non opera questa idea”. Ecco un lettore che si è immedesimato! Un poeta come tale si rivela anche quando legge, dato che è lui il primo a convertirsi al movimento dell’altro. Il fatto che la Commedia sia un poema cristiano non significa, ovviamente, che possibilitati a capirlo siano solo i cristiani. Ma forse chi compie un cammino cristiano ne è facilitato. Un conto è compiere una scalata partendo dal campo-base già ai piedi della montagna e un conto è dover scarpinare fin dall’albergo a fondovalle. Il nòcciolo di Dante, la scoperta più sorprendente dell’accrescersi della mia lettura, infatti, è che il suo viaggio mette in scena una personale esperienza di conversione e salvezza, giocata in un continuo paragone con la cultura medievale e classica, poetica e teologica, dove è l’esperienza che le invera, non il contrario.

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Serve un esempio. All’inizio del Canto XXVII del Purgatorio Dante deve affrontare un passaggio attraverso una specie di fornello di fuoco, per continuare il suo cammino e giungere al paradiso terrestre e poi al paradiso. È in realtà una fiamma innocua, come gli dice Virgilio, che non gli brucerebbe un capello neppure se ci stesse immerso per mille anni. Ma Dante non vuole attraversarla e rimane “fermo e duro”. Per convincerlo Virgilio deve dirgli che di là c’è Beatrice e questo accenderà di coraggio Dante. Il passaggio poi si rivelerà intenso (“tant’era ivi lo ‘ncendio sanza metro”) eppure veloce, seguito dalla sera e da un sonno ristoratore. Ora, chiunque sia approdato o tornato al cristianesimo ha fatto sulla sua pelle questa esperienza. A un certo punto del viaggio, quando occorre un’ultima, definitiva decisione, c’è una barriera infuocata, che il protagonista deve superare con coraggio. Questa è l’esperienza del salto finale che ogni cristiano ha vissuto prima di dire “mio” all’avvenimento che lo ha incontrato. Di là da quella il cammino appare più agevole, ma prima sembrava invalicabile. Me lo ricordo bene: dopo un’adolescenza in parrocchia, un cristianesimo devozionista e intellettuale, dopo una giovinezza da “rivoluzionario”, in lotta continua con la tradizione, l’incontro con le ragioni e i volti affascinanti di persone cristiane fece esplodere per me tutta la persuasività del cristianesimo. Ma occorreva un assenso che concludesse la fase di avvicinamento e desse il via a una fede adulta, un coraggio che facesse diventare letterale l’esperienza. Un salto nel fuoco, un rischio da assumersi. E anch’io ricordo una Beatrice di là, senza la quale non so quanto avrebbe tardato il mio salto.

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Recentemente ho partecipato con la lettura di mie poesie ad un convegno, in cui altri poeti avevano l’incarico di svolgere una relazione sulla poesia. Era presente anche Gianni D’Elia. Parlando di Pasolini, D’Elia affrontava il tema dell’eresia rispetto all’ideologia, rivelandone anche l’impronta cristiana oltre a quella marxiana preponderante; veniva riconosciuto che il cristianesimo è un’impronta culturale inevitabile nella nostra storia, anche nei poeti che -come D’Elia diceva di sé- sono atei. Ritornava insomma in un determinato contesto il “non possiamo non dirci cristiani” di crociana memoria. Io credo che quest’affermazione non sia più così automatica. Oggi possiamo benissimo non dirci cristiani, anzi lo facciamo normalmente, soprattutto con le nostre azioni e la nostra mentalità. Chi fa un’esperienza cristiana è minoranza tra le minoranze, le conseguenze della fede cristiana sono un’opinione tra le opinioni e non incidono sulla mentalità comune. L’esperienza, la mentalità, la cultura cristiana non sono scomparsi, semmai si sono sparsi in tutto il mondo (perfino in Arabia Saudita e in Cina, dove sono ferocemente perseguitate); ma è facile osservare che Cristianità e Occidente non coincidono più. La Divina Commedia viene letta conoscendo solo assai superficialmente l’ontologia cristiana che dà forma ad ogni suo verso; cosa se ne capisca, è un’altra questione.

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Di un altro convegno, stavolta dantesco, ricordo il rammarico di un amico per l’assenza improvvisa del relatore che doveva svolgere il tema “Dante cristiano”. Gli dissi che io non ero rammaricato perché è un tema che ritengo assurdo, dato che implicitamente affermava che può esistere anche un Dante non cristiano; ugualmente, per tornare a D’Elia, è oggi altrettanto assurdo parlare di cultura cristiana senza fede cristiana. Ai tempi di Pasolini forse no, perché il tessuto antropologico degli italiani (le leggi e l’etica, ad esempio, fino alla tivù) poteva ancora dirsi naturaliter cristiano; ma oggi la questione più interessante del rapporto tra il cristianesimo e Pasolini è sapere se egli credesse o no che Gesù è Dio, se Lo amasse. Il cristianesimo non agisce più per una spinta naturale dei residui di una tradizione: oggi il cristianesimo vive senza più poter prescindere dall’amore a Gesù e dalla fede in Lui come Dio incarnato e risorto. Cosa ne pensava Pasolini esattamente di questo? La nostra cultura ha frammentato la cristianità operando una continua frammentazione della questione: la cultura cristiana distinguibile dalla fede cristiana, Dante cristiano e Dante… non so. Ma la storia procede e, come dicevo, adesso è falso affermare che siamo storicamente cristiani anche se atei. Invece bisogna scegliere di esserlo.

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La sottile confusione che agisce nell’affermazione crociana è però ben più pericolosa e, a ben guardare, quasi discriminatoria: vi si postula la netta divisione tra fede e ragione. Un tranello, conviene dirlo, in cui anche certi cattolici cadono, i quali evidentemente non hanno ben letto, ad esempio, la recente enciclica Fides et ratio, ma che altrettanto evidentemente non sanno leggere Dante, dato che scienza, ragione e pensiero sono nella Commedia connaturati alla fede, dove non c’è traccia di divisione tra fede e ragione, tra storia della persona e immaginazione del viaggio, tra andamento dell’anima e del corpo… In Dante l’adesione al cristianesimo è perfettamente e coerentemente razionale, il suo tragitto dice che il rifiuto della fede è un rifiuto a livello razionale, solo chi non ha mai sentito parlare di Gesù è giustificato nel non avere fede, è questo è vero per ogni poeta cristiano: con Ungaretti, il più dantesco del novecento, il cristianesimo rifiuta di essere una fede opinione-tra-le-altre, una fede illuminazione-della-grazia (che capiterebbe solo a qualche fortunato eletto) e torna nell’agone del pensiero e della storia della cultura, accettando a tutto campo la sfida della ragione. La libertà è sempre contemporanea alla ragione.

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Sia chiaro: non c’è qui nessun intento di dividere qualcuno da qualcosa, né di affibbiare delle etichette. Credo semplicemente che giovi a tutti la chiarezza ed ho inoltre un’incrollabile pretesa di libertà per tutti. “Di fronte a Dio ci sono solo individui” dice Gomez Dàvila. Per questo mi sembra opportuno accorgermi che non esiste cultura cristiana senza fede cristiana, società neppure naturalmente indirizzata ai valori cristiana senza che chi la compone non abbia la fede. Per questo è anche difficile che chi non è cristiano trovi, giudichi, definisca gli elementi di quella che è un’esperienza, prima che una filosofia o una religione. È inaccettabile che un ateo dica che la fede è diversa dalla ragione, se non altro semplicemente perché non fa l’esperienza della fede. Il ghetto spiritualista è uno dei luoghi comuni in cui gli atei tendono a chiudere i credenti. Per spazzare via anche dalla poesia ogni equivoco spiritualista, basta vedere come Dante parla dell’amore nel Canto XVII del Purgatorio: in alcuni versi è superata l’ammorbata estetica stilnovistica dell’amore che, come la filologia ha dimostrato, era venata di decadenti influenze religiose orientaleggianti. L’amore non è più un indipendente demonietto del cuore contro cui la ragione non può nulla. Anzi, la natura dell’amore e dell’uomo, coincidono con la ragione. L’uomo per Dante è naturale quando è razionale, altro che new age! Giustamente Paolo e Francesca, emblemi di quel genere d’amore, sono puniti di una pena che è tutta sentimento, con un vento che non permette di ragionare. La lettura storico-letterale della Divina Commedia coincide col livello razionalmente cristiano della fede.

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Per questo solo dalla fede può iniziare la cultura cristiana. Ciò che è residuo, rudere, frammento di una cristianità frantumata non è più efficace, né interessante, né edificatore di una società. O si è atei, o si è cristiani, la società e la storia saranno il test che indicativo della capacità di costruzione. I prestiti, le contaminazioni, la multiculturalità vanno ridefiniti al di fuori del caos, come implicitamente suggeriva Eliot. Ognuno sia quello che è, nella libertà e nell’ascolto, diciamo pure nella democrazia, e vediamo cosa succede. La visione del mondo dev’essere esplicita, chiarita, senza scusanti ideologiche.
Una diversità di visione anima Dante da influssi che, proprio nel suo tempo, all’apogeo della civiltà medievale, ne decretano l’inizio della frantumazione. Quando Dante ha trovato il coraggio di superare l’ultimo fornello di fuoco e incontra Beatrice nel Paradiso Terrestre, riceve ripetutamente lo stesso invito di scrivere ciò che vede. Tutto ciò che vede, dato che la poesia è tentativo di visione piena del reale, non una televisione, uno schermo su cui si accampino di getto le immagini.

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Sarà utile tornare, a proposito di visione, ancora a ciò che dice Davide Rondoni, anche nella sua poesia, dove questo è realizzato, ad esempio nel poemetto La radio trasmette la visione, centrale nella raccolta Non sei morto amore, davvero dantesca. Nessuno spiritualismo, nessuna metafisica: la visione dantesca è strada per evitare sia la piattezza della storia ridotta a cronaca e ancella dell’ideologia, sia lo spiritualismo religioso a cui si condannano persino certi cristiani, che cadono nel tranello diabolico di disgiungere fede e ragione. Qui troviamo l’esperienza formidabile raccontata e vissuta da Dante, che ci chiede letteralmente di rifare la stessa strada per gustare pienamente la Divina Commedia, la poesia e il mondo dato che, infine, la lettura letterale della Divina Commedia è il cristianesimo.