Jacob

Il recente traduttore e introduttore di Max Jacob, Vittorio Cozzoli, ci ricorda citando Jean Cocteau, a proposito di Jacob che: “… fu lui il vero poeta del cubismo, non Apollinaire – e i risultati, guadagno e reputazione, sono minuscoli”. Quella di Cozzoli è una scelta che spazia dalla raccolta Le laboratoire central del 1921, cronologicamente vicina all’esperienza della poesia in prosa, di cui Jacob fu uno dei più convincenti iniziatori, fino alle raccolte postume Derniers poèmes en vers et en prose(1945) e Poèmes de Morven le Gaëlique (1953) passando attarverso raccolte centrali come Les pénitents en maillots roses del 1925 e Rivage del 1931. Nato in Bretagna nel 1876 da famiglia ebrea, dal 1901 a Parigi, dove si era trasferito, Max Jacob si lega d’amicizia con Picasso, Matisse, Apollinaire, Salmon e con altri protagonisti delle Avanguardie. Qui partecipa attivamente alla bohème finché, nel 1909, ha una crisi mistica che lo porta alla conversione al cattolicesimo e al Battesimo nel 1915 (con la “strana presenza”, come la definisce Cozzoli, di Picasso che gli fece da padrino). Nel 1921 si ritira nell’abbazia di Saint-Benoit-sur-Loire, ma ne esce per vivere un nuovo periodo parigino: “Cette periode (1928-1936)” scrisse Jacob “est la plus criminelle de ma vie”. Nel ’36 torna all’abbazia ma con la Seconda Guerra Mondiale viene rinchiuso dai nazisti nel campo di concentramento di Drancy, dove muore il 3 marzo. La scelta e la traduzione di Cozzoli ci permette di attingere all’opera di un protagonista fondamentale di un periodo tanto fecondo della letteratura europea, ma non solo; dà anche un saggio dell’attualità di un poeta che non ha certamente un’importanza solo storica. Chi percorre questo libro vi troverà innanzitutto un movimento dello stile che, oltre a passare agevolmente dai versi alla prosa, evidenzia un continuo rifiuto della cristallizzazione in una maniera e non sosta mai sulle scoperte fatte. C’è sempre in Jacob una componente di rischio, di ininterrotta rimessa in discussione della propria voce. L’indiscutibile fascino della sua biografia umana, che di per sé non può comunque essere sufficiente a dar valore alla poesia, riesce ad avere una rifrazione nell’opera, mai in situazione di stasi. È una poesia quindi che non si fa in maniera solo intellettuale, al contrario di altre esperienze contemporanee, anche se non nega al pensiero e alla ragione di entrare; una poesia che sa essere grottesca e dolorosa, leggera e altamente emotiva, assoluta fino al misticismo e al contempo quasi minimalista, tante volte drammatica sia come teatralità del tono (il lettore scopre che certi testi sembrano proprio essere particolarmente adatti ad un dizione a voce alta) che come vicinanza a quel punto di inafferabilità che è esperienza quotidiana. Sono questi solo alcuni spunti per affermare che la riscoperta di Jacob può essere attuale non solo dal punto di vista di una risistemazione dei valori effettivi che hanno attraversato la recente storia della letteratura, ma anche fertile spazio di paragone per chi opera oggi.