Mandel’štam

Osip Mandel’štam, La pietra

Osip Mandel’štam nacque nel 1891 e la sua prima raccolta di poesia, Kamen’ -La Pietra- (che ebbe poi aggiunte di testi in edizioni successive, a iniziare già dal 1915) uscì nel 1913, anno cruciale per la letteratura russa, uno di quei nodi cronologici in cui si intrecciano avvenimenti storici di grande importanza: “S’avvicina il Secolo Ventesimo/Autentico, da calendario” scrive a questo proposito Anna Achmatova la cui risonanza in campo poetico iniziò proprio in quell’anno con la raccolta La sera. Anche se un singolo anno non può essere assunto come punto di riferimento assoluto, fu intorno ad esso che l’Età d’argento cominciò a dissolversi per lasciare il posto alla vivida e turbolenta epoca delle avanguardie, soprattutto del Futurismo: se ne pubblicò nel ’13 il manifesto in Russia intitolato La luna crepata ad opera, tra gli altri, di Majakovskij e Chlebnikov. L’Età d’argento, (così chiamata per distinguerla da quella d’oro della grande stagione poetica del XIX Secolo, di Puškin, Lermontov e Tjutčev) coincise soprattutto con l’avvento del Simbolismo russo, che ebbe tra i principali esponenti Aleksandr Blok, Vjačeslav Ivanov e Andrej Belyi e che si distingueva decisamente da quello francese, anche se chiaramente ne desumeva il nome. In questo periodo in campo letterario la poesia ebbe il sopravvento sulla narrativa, che pure aveva dato pochi decenni prima le grandi opere di Dotoevskij, Tolstoj, Cechov, Turgenev: nel ventennio in questione, che va pressapoco dal 1890 al 1910, la poesia era in Russia padrona del campo.

Le due fondamentali caratteristiche del Simbolismo russo erano la forte sensibilità mistico-religiosa e la coincidenza tra arte e vita. A proposito del primo punto, Viktor Šklovskij ha affermato che “la poetica dei simbolisti… ha sempre tentato di trasformarsi da poetica in corso di iniziazione alla misterosofia” e per Vjačeslav Ivanov la poesia doveva servire ad elevarsi dal mondo fenomenico a quello del noumeno, “a realibus ad realiora” (dal reale alla realtà superiore) per dirla con l’espressione latina che egli stesso amava usare. Ma Aleksandr Blok, comunemente riconosciuto come il maggior simbolista russo, già nel 1911 doveva ammettere che, se prima della rivoluzione del 1905 le aspirazioni mistiche avevano un fondamento, dopo quella data si erano ridotte a pose e simulacri, facendosi “fumi dell’ebbrezza”. Anche il secondo aspetto del Simbolismo va sfumando in una nuova e differente epoca, come dice Vladislav Chodasevič: “Il simbolismo non voleva essere soltanto una scuola artistica, una corrente letteraria. Aspirava a diventare un metodo creativo-esistenziale; in ciò stava la sua profonda verità, forse irrealizzabile; tuttavia l’intera sua storia è trascorsa, sostanzialmente, nella costante ricerca di questa verità. Si trattò di una serie di tentativi, in alcuni casi autenticamente eroici, volti a creare una lega di arte e vita, una sorta di pietra filosofale dell’arte”.

Quando nel 1910 Mandel’štam pubblicò sulla rivista “Apollon” cinque poesie della raccolta La pietra, era dunque un diciannovenne di straordinaria maturità che doveva fare i conti con questo stato di cose. Così ne parla Sergej Averincev: “Le poesie del 1908-1910 costituiscono un fenomeno pressoché unico nell’intera storia della poesia mondiale: è molto difficile trovare da qualche altra parte una tale combinazione tra psicologia immatura di un giovane, poco più che adolescente, e una così perfetta maturità nell’osservazione e descrizione poetica proprio di quella stessa psicologia”. È molto importante tenerne conto per comprendere i versi di questa raccolta che sono contemporaneamente limpidi (come quelle dei classici) e oscuri e tormentati (come l’epoca da cui vengono). Maggiore di tre figli di una famiglia di ebrei polacchi, faticosamente naturalizzatasi in Russia, fino a quel momento Osip aveva seguito una formazione solida e versatile. La madre, che seguiva l’educazione dei figli più del padre assente e bislacco, l’aveva iscritto all’Istituto Commerciale Tenišev di San Pietroburgo, allora una delle miglior scuole del paese, che il ragazzo frequentò dal 1900 al 1907. Nel frattempo era accaduta la rivoluzione del 1905, banco di prova fondamentale per la gioventù del tempo, che vi aveva aderito come a una vera e propria vertenza di lotta per le sorti di un paese, la Russia, da rinnovare e liberare, e con un forte sentimento di dignità e di impegno personale. Mandel’štam vi partecipò tra le file massimaliste, quella dei socialrivoluzionari e ancora nel 1907 teneva comizi per gli operai dei quartieri industriali su questioni politiche e sindacali. Ma ben presto decise di dedicare tutte le sue energie alla scrittura, soprattutto per l’influsso di Vladimir Vasil’evič Gippius, suo insegnante di lettere. Bisogna anche ricordare che proprio in quegli anni, dal 1907 al 1910, Mandel’štam visitò l’Europa Occidentale, con soggiorni di studio a Parigi, Heidelberg, Berlino e frequenti puntate in Svizzera e Italia, tanto che nel 1910 S.P.Kablukov, segretario della Società di Filosofia religiosa di San Pietroburgo, poteva affermare: “Adesso si vergogna della passata attività rivoluzionaria e ritiene che la propria vocazione sia nel campo della poesia lirica”.

Il lavoro di scrittura poetica e di riflessione di Mandel’štam si forgiò inizialmente nella critica alle istanze primarie del Simbolismo e registrò la sua adesione alla “Cech poetov” (La gilda dei poeti): “tale denominazione” spiega Efim Etkind “usata nel Medioevo dalle associazioni degli artigiani medievali (…) sottolineava l’attenzione prestata all’aspetto professionale-tecnico della versificazione”. Alla Gilda aderirono numerosi poeti che, sotto la guida di S.Gorodeckij e N. Gumilëv (e con Anna Achmatova come segretaria) formarono ben presto, contemporaneamente al Futurismo, uno dei movimenti più importanti del periodo: l’Acmeismo. Il nome venne scelto già nella prima riunione, tenutasi a casa di Gorodeckij il 20 ottobre 1911 e ben presto il gruppo rivelò il deciso proposito di superare il Simbolismo, tanto che la Achmatova, anni dopo, affermava: “Il simbolismo era indubbiamente un fenomeno del XIX secolo. La nostra rivolta contro il simbolismo era assolutamente legittima, perché noi ci sentivamo uomini del XX secolo e non volevamo restare nel passato”. E pensare che a quella riunione era presente anche Blok! Ben più importanti furono i manifesti che del nuovo movimento apparvero sulla rivista “Apollon” nel fatidico 1913. Avrebbero dovuto essere tre: uno di Gumilëv, uno di Gorodeckij e uno di Mandel’štam, ma quest’ultimo fu pubblicato misteriosamente solo dopo sei anni. Gumilëv, criticando il simbolismo come “noioso” (“tedesco”, quindi serioso), “astratto” (lontano dai fenomeni della realtà e della storia) e “freddo” per l’abbassamento di Dio al livello della letteratura e l’elevazione di questa a quello della teologia, vi opponeva l’acmeismo per la sua “concretezza” rivolta ai fenomeni del mondo, il riferimento alla “luminosa ironia” della letteratura francese e il “pudore” nell’uso della parola. Anche Gorodeckij si muove su posizioni simili contro il simbolismo che, secondo una sua affermazione diventata famosa, “dopo aver riempito il mondo di «corrispondenze», ha finito per trasformarlo in un fantasma, importante solo in quanto lascia intravedere e trasparire altri mondi” mentre per gli acmeisti nell’arte poetica occorre affidarsi al “significato solido”, alla precisione, all’equilibrio e alla chiarezza della parola.

Ma il terzo manifesto, quello di Mandel’štam intitolato “Il mattino dell’acmeismo”, ancorché procrastinato, appare oggi come quello più incisivo e preciso. Esso è incentrato sulla parola poetica, così come essa funziona ed entra in relazione col mondo. Vi si afferma innanzitutto che essa è l’unione di molti elementi che ne costituiscono la particolare “densità” e il significato cosciente (Logos); che non ha “valore in sé”, ma permette di accedere ad una “gioiosa interazione con i proprî simili, come le singole pietre in una cattedrale gotica”, da cui discende anche l’importanza fondamentale del rapporto tra poesia e mondo reale; il quale, a sua volta, è composto di fenomeni tutti egualmente importanti perché, per il fatto stesso di esistere, si oppongono al non essere, al vuoto, criticando con ciò la formula “a realibus ad realiora” di Ivanov e giungendo alla nota conclusione: “Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e il vostro essere più di voi stessi: ecco il più grande precetto dell’acmeismo”. Ma, come sempre, i manifesti possono anche essere disattesi dalla pratica della scrittura (come ben sappiamo in Italia dove proprio in quegli anni agisce il movimento Futurista che, almeno in campo poetico, non ha prodotto testi all’altezza dell’energia propulsiva dei suoi manifesti). Nel caso di Mandel’štam invece, molte delle indicazioni date fin qui possono guidare alla lettura della sua prima raccolta, La Pietra, anche se ovviamente non ne esauriscono la ricchezza formale e tematica.

Partiamo dai due punti di rottura col simbolismo: l’identità arte-vita e il religioso. Abbiamo già visto come gli acmeisti privilegiassero l’aspetto del mestiere nella scrittura, almeno bilanciandone l’importanza al peso dell’ispirazione. In queste poesie di Mandel’štam il tema viene affrontato spesso, soprattutto nel paragone con l’architettura, tipico di alcuni tra i testi migliori, come La conchiglia, Santa Sofia, Ammiragliato e soprattutto Notre-Dame, che si conclude con questa affermazione perentoria: “dalla cattiva pesantezza/anch’io un giorno il Bello creerò”. La pesantezza della parola è la sua ferialità, che porta ad una perdita di spessore semantico, ad una banalizzazione del significato, tema questo centrale nella splendida A chi trova un ferro di cavallo, qui aggiunta assieme a poche altre poesie per documentare il prosieguo del lavoro di Mandel’štam oltre La pietra. L’idea dell’arte come artigianato (quante volte ricorrono le immagini del falegname, del filo a piombo, dell’archipendolo) porta al tono particolare, squisitamente classico ed equilibrato della raccolta, che Averincev definisce come solennità: “La solennità del primo Mandel’štam (…) si combina col ritmo lento del verso e suscita l’impressione di uno sguardo svagato che guarda attraverso le cose”. E più avanti: “La solennità (…) da cosa è motivata allora? (…) appare evidente che l’argomento di cui si occupa è l’essere stesso delle cose”. La citazione ci porta direttamente al secondo punto di frizione col simbolismo, alla questione religiosa.

Per Mandel’štam sembra infatti che nel mondo ci sia già tutto, che non occorra nessun volo in nessun cielo per giungere all’essere. In questo senso non teme neppure di trattare argomenti assolutamente quotidiani, come i bambini che comprano il gelato (“Gelati”. Sole. Biscotto delicato), il Cinematografo, il Tennis, anche con una certa ironia (pare che fosse dotato di ottimo senso dell’umorismo). Dal punto di vista personale era poi enormemente discreto sul proprio sentimento religioso ed anzi criticava spesso i sodali Gumilëv e Achmatova per l’eccessivo scialo di Dio nelle loro poesie. Per Mandel’štam citare Dio era allontanarsene, come dice chiaramente la poesia La tua immagine pietosa e indefinita; sembra che per lui il comandamento “non nominare il nome di Dio invano” fosse particolarmente serio. In generale la sua simpatia andava per le forme di devozione austere e discrete, cosa che lo spinse a lasciare l’ebraismo e a convertirsi al cristianesimo, aderendo alla chiesa metodista con il battesimo del 14 maggio 1911 a Vyborg. Alla notizia Mandel’štam non diede alcun risalto proprio per la discrezione con cui concepiva l’argomento, ma il fatto ha risonanza in alcune poesie, soprattutto Il luterano, che riecheggia anche la sua ammirazione per uno dei grandi poeti russi dell’età d’oro, Tjutčev, il quale nel mezzo del XIX secolo scriveva: “Mi piace la funzione dei luterani,/il loro rito severo, semplice e solenne” (paragonare i versi di Mandel’štam). Un altro grande poeta classico russo, Puškin, viene a più riprese esplicitamente citato, come dimostrano le belle Strofe pietroburghesi che riprendono il capolavoro puskiniano Il cavaliere di bronzo, opera che d’altronde sta nel DNA stesso dell’identità russa.

Non è solo il classicismo russo a contribuire alla solennità de La pietra; ritorna qui insistente anche l’immagine di Roma, come si può trovare, ad esempio, in Con allegri nitriti pascolano le mandrie, dove l’autore afferma di essere nato a Roma. La città eterna rappresenta la gravità e la severità della sua storia e della cultura, almeno alla pari dell’architettura gotica o pietroburghese. E rappresenta allo stesso modo il fascino del cattolicesimo che esemplifica per Mandel’štam l’attrattiva per una cultura mondiale, così come indica il significato stesso della parola “cattolico”, ma anche la figura del pontefice, incarnazione di un punto universale d’unità (va ricordato che una delle poesie coeve a La pietra, non inserite dall’autore nella raccolta, era dedicata ad un’enciclica di Benedetto XV). D’altronde un’altra definizione che Mandel’štam dà dell’acmeismo è “nostalgia della cultura mondiale”. L’idea è filtrata dalla lettura dell’opera di Pëtr Čaadaev, rieditata ovviamente nel 1913 dopo una lunga interdizione dovuta alla censura, che lo fulminò e su cui compose un saggio nel ’14. Čaadaev era un intellettuale del XIX secolo che scrisse, in francese, alcuni interventi di carattere occidentalista sulla storia della Russia come se fosse guardata da un punto di vista europeo, soprattutto latino: come ricorda Averincev “dell’occidentalista russo del secolo scorso lo sbalordì l’idea dell’unità come legame di significato extratemporale, tuttavia presente nella concretezza non inventata della continuità storica, della quale Čaadaev cercava una visibile incarnazione nel fenomeno della Chiesa cattolica”. L’influenza di queste idee riecheggia in alcune poesie di La pietra, come L’abate o Il bordone. Della ricchezza di questa raccolta fa parte anche l’articolato riferimento alla storia della letteratura mondiale, che rende la tramatura dei versi particolarmente fitta di riferimenti e piaceva tanto ad un autore colto, ancorché simbolista, come Ivanov. Poe, Ossian, Flaubert, Zola, Dickens, Racine e gli ancor più classici Omero e Ovidio vi sono citati.

Occorre in conclusione ricordare che dopo la Rivoluzione Russa del 1917 la vita di Mandel’štam fu un progressivo, lento precipitare verso la tragedia finale. L’avvento al potere di Stalin, in particolare, significò la fine per lui di ogni possibilità di lavoro e della vita stessa. La splendida generazione dei poeti dell’età d’argento scomparve in pochi anni; alcuni suicidi, come Majakoskij, Esenin o Cvetaeva; altri in esilio, come Ivanov o Chodasevič; altri imprigionati ed eliminati, come Gumilëv e lo stesso Mandel’štam, che morì, dopo una vita di stenti passata con l’unico conforto della moglie Nadežda, in un campo di concentramento di transito in Siberia durante la deportazione nel lager probabilmente nel 1938 (il corpo non è mai stato trovato). Tra le cause della morte vi fu anche l’assoluta affermazione dell’autonomia dell’arte e dell’intellettuale rispetto al potere, e la temeraria critica a Stalin stesso, al quale è dedicata la famosa Viviamo senza neanche l’odore del paese.