Racconto della Riviera

Gianfranco Lauretano - Racconto della Riviera

La dolcezza di questo racconto è simile al vento e ci fa temere di lasciare fuori dai finestrini di una qualunque gita quello che ci accade intorno (quante volte guardiamo le prostitute come fossero una mostra di serpenti in una teca?). Gianfranco Lauretano ha preso di peso una di queste vite e l’ha come adottata. Certo la scrittura non salva la vita, non guarisce, non abbellisce, e nemmeno è solo scioccante. La scrittura è solo scrittura. È solo un foglio di carta con delle parole scritte sopra e, come ci ricordano alcuni pittori, ugualmente una tela non è le cose, è solo una superficie piatta con del colore. Da questo manufatto sottile, creato, però, si entra dentro un mondo. Lauretano è stato male per la vita di un ragazzo della riviera, ha patito questo viaggio/esperienza ed è arrivato insieme al ragazzo a un punto di fuga, come una luce nel quadro di Caravaggio. Una luce che sfido chiunque a pensare subito come finta, come fuga, come droga.

Francesca Serragnoli

Partenza

Come ogni storia del mondo
comincia anche questa da un padre
il babbo di Marco in pensione
che passa da un vecchio divano
in cucina a una stanza da letto
che dorme che mangia che guarda
programmi dementi. Da giovane
ogni singola domenica mattina
portava l’Unità agli iscritti
volontario entusiasta nei festival
ma un male deluso, un male
accidioso, una frana dell’essere
l’ha spento dentro uno zapping.

Marco scappa, sabato sera
e lui non rimane a casa di certo
sottrae dei soldi del padre
dal portafoglio scordato nella giacca.
Sbatte la porta ed il padre
lancia un’occhiata-pensiero abbozzato
«ah già Marco, come al solito
senza un saluto ma che vada
dove gli pare che vada a…»
quel figlio rimasto senza parole
come lui, suo padre, e basta…

Marco, da che cosa scappi?
Da cosa vuoi essere libero?
Da cosa è possibile essere
liberi in questa coperta
grande di nulla che viene
e copre i pensieri, copre
l’impeto dentro i tuoi anni
nelle mani, in quel cuore
che vive nelle nostre mani?
Io sono te, il dolore del vuoto
inspiegabile aperto alla nascita
io sono il vuoto che si apre
frutto finalmente maturo
di un antichissimo male.
Io sono te, anzi ti faccio
compagnia. È uguale?

Branco
La notte ha sempre qualcosa
di fresco, illude un istante
fuori di casa che lo sporco
non abbia sommerso già tutto;
certe con un poco di vento
bastevole a togliere l’umido
e a fare brillare i lampioni
come vicinissime stelle…
così per un attimo Marco
respira, esala quel vuoto
prepara una sera imprevista.

Lo scooter è di quelli vissuti
un po’ rimediato ma fatto
da lui, è il suo orgoglio,
sufficiente a raggiungere
riviera e compagni in attesa
una corsa tra i campi di sera
col freddo che solca la pelle
le lacrime tolte dall’aria
l’esalta l’attrito sulla T-shirt
bellissimo incontro di lotta
le casette sulla statale
dei grossi cani dormienti.

Cesenatico, gente rinfusa
tra scoppi d’euforia, sport
e sbadigli si tira a fatica
nei bar nei pub nei beach
di sera ancora più topi
rinchiusi dentro vetrate
a sorseggiare che cosa
a conquistare ragazze
già conquistate in partenza.
È tutto senza. Sì, succede
qualcosa ma nulla poi avviene
e ognuno rimane dov’è
nel suo pezzo di babele;
sì, qualcuno ride ma perché
che cos’è il divertimento
l’umore è come un vento
che soffia in mille direzioni
e ridere è un sussulto
dei polmoni. Il più è traffico
imprese sempre più dementi
piloti esagitati e un po’
cannati, tedesche con i cani
che attraversano la strada
ragazzi veramente tutti
uguali, vigili, gelati…

Il branco l’aspetta nello spiazzo
appollaiato sugli scooter
due limonano abbracciati
altri ridacchiano e urlano
un paio beve una birra
la prima di una lunga serie.
Marco arriva salutato
da quei durissimi amici
ma un primo conato lo piega
all’improvviso: sempre loro
uguali, costanti, invariati
sempre loro, niente facenti
sempre sabati obbligati.

Chiara…
Per un momento s’allontana
da quel rotolare di niente
e si ricorda di qualcosa, un niente
gli ritorna… una sera, come ora
estate ai bordi del campetto
la gara finita da poco
loro, i guerrieri, uscivano
sporchi di polvere, insulti
di lotta felice e stanchezza.
Notò una ragazza seduta
forse li aveva guardati
sembrava comunque slegata
da ogni facile ammirazione.
Chissà come fece a parlarle
due frasi per scherzo o amore
perché l’amore viene
prima di pensiero e conoscenza
e tutto l’amore che venne
da quella sera in avanti
era già nella prima veduta
era lei, stranamente venuta…

Ma è un’allucinazione. Chiara
appare nella nebbia della testa
attraversando il caos della tribù;
nella mente di là dalla piazza
sta passando con le sue amiche.
E al suo cuore adolescente
non bastano gli amici animali
il sangue appannato dalla birra
il cervello dirottato dall’istinto.
Se lei fosse lì nessun lampione
si esimerebbe dal farle luce
e il traffico, il suo miasma nel naso
e nell’udito non avrebbe risalto
il dito del grattacielo che sovrasta
sarebbe una guglia di tenerezza
l’universo così pieno di stranieri
diverrebbe all’istante una famiglia.

E il mare, dio mio, il mare
che qui nell’inferno delle vacanze
a dieci metri è già invisibile
il mare ritorna impetuoso
ma non è il mare non è il mare
è memoria di Chiara, il suo respiro
lei il vento che soffiava
e finalmente faceva vedere
che spazzava la foschia, il grigio
la noia, la noia!, lei il mare
il vento imprevisto come l’amore
che arriva sempre da altrove
ragazza che non passava mai
e tutto ad un tratto contro tutto
contro questo muro appariva
e, venendo, portava il mare.