Cosa sia la realtà e cosa significhi in letteratura il termine “realismo” è una questione sulla quale la ricerca di Betocchi si è sempre confrontata, fin dai suoi esordi. La prima raccolta del 1932, infatti, che “si situa come punto di origine temporale esattamente tra gli Ossi di seppia (1925) e le Occasioni (1939); a sette anni di distanza dal primo e dal secondo libro di Montale” (come acutamente fa notare Tabanelli) si intitola assai significativamente Realtà vince il sogno. L’indagine betocchiana sulla realtà è stata innanzitutto attiva, fattuale; la sua poesia, scarsa di reperti metaletterari, mira continuamente a stare di fronte e a rendere il dato che egli incontra nella sua esistenza di uomo e di lavoratore.
I luoghi, le persone e ancor meglio il popolo che dei luoghi è l’anima, la natura… ecco gli oggetti di questa poesia, soprattutto nella prima fase, mentre dagli anni Sessanta, cioè all’incirca dalla raccolta Un passo, un altro passo, accanto alla rappresentazione del dato, ha sempre più posto una meditazione dolorosa e allegra insieme sul destino dell’esistenza, sul tempo che passa, sulla vecchiaia e la morte. La poesia di Betocchi non è unilateralmente oggettiva o soggettiva: “Forse, davvero,” afferma il poeta in quel testo eccezionale (per sintesi e concretezza) di riflessione sul proprio fare poesia che è il Diario della poesia e della rima del 1964 “e tanto meno ora che invecchio, io non ero nato per una poesia fondata su quel piano oggettivo che esige, del resto, i grandi intelletti. E qui voglio introdurre una clausola: per dire che se anche fosse stato così, oggi penso che non avrei voluto somigliare a Rimbaud. (…) Vorrei invece aver somigliato a Eliot, che nella sua creazione di poesia, rifacendosi a Dante, ha restituito alla pietà il trono che le spetta. E ora capisco perché, un poeta come Eliot, non a Rimbaud abbia guardato, ma a Laforgue: quasi mutuando dalla poesia soggettiva l’umiltà della condizione umana direttamente espressa”.
La pietà, altro termine persistente e illuminante del fare di Betocchi, è forse anche questo evitare un eccesso, che si potrebbe definire quasi ideologico, nell’adesione ad un’istanza tout court oggettiva oppure soggettiva della poesia, il grande dilemma del Novecento. Questo non tanto in virtù di un giusto mezzo, quanto per il fatto che il realismo vero è quello che non abdica mai, per Betocchi, all’io, alla sua presenza e definizione nella ricerca letteraria. A fronte di tanti realismi che da un lato annullano l’io rendendolo parte infinitesimale del cosmo e dall’altro lo rendono succube di un’idea storicistica del progresso e della società per cui l’io, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, diventa quasi una prerogativa borghese, per Betocchi la realtà non prescinde mai dall’io, il quale è, invece, partecipe. Anzi, è nell’io, nella sua sete e nella sua domanda, che trova senso e conferma la realtà; d’altronde “io” è la prima parola del primo verso della prima poesia scritta da Betocchi (“Io un’alba guardai il cielo e vidi”), il quale tante volte affermerà che proprio da essa parte una costanza di stile e di sguardo di tutta la sua opera.
Per quanto riguarda la storia della letteratura, negli anni Cinquanta ebbe luogo un ampio dibattito di revisione culturale e sociale sul tema della realtà (“realismo”, “neorealismo”…). A questo dibattito Betocchi partecipò attivamente e anche, direi quasi, “naturalmente”, data la natura della sua costante riflessione su questo tema. Ne sono testimonianza alcune lettere, scambiate con Pier Paolo Pasolini proprio in quegli anni. La crisi del concetto di realtà è vissuta dai due autori con molta vicinanza, seppure su opposte sponde ideali. La crisi pasoliniana coinvolge il marxismo, la sua personale oscillazione tra i valori d’origine borghesi e il desiderio di adesione più incondizionata all’ideologia che era a quel tempo piena di promesse redentrici per le classi popolari ma mostrava già qualche segno di contraddizione e di parzialità, soprattutto a giudicare dalle notizie che incominciavano a trapelare dai paesi dell’Est europeo.
Betocchi vive la stessa crisi da cattolico. Una Fede devozionista, tutta spirituale e un po’ da sagrestia come stava diventando quella della maggioranza dei cattolici negli anni Cinquanta non poteva bastargli. Avrebbe desiderato proprio quell’incidenza, quel rapporto con la realtà tra Cielo e cielo (per ricordare il calembour presente in nella sua poesia Vetri) che faticava a trovare intorno a sé. Era un’istanza sentita anche da altri uomini di cultura e di Fede. Per Betocchi la realtà è un problema di conoscenza, una compenetrazione tra soggettivo e oggettivo che tante volte la poesia gli ha permesso di attuare in forma gratuita, quasi “donata”. E la conoscenza non è per Betocchi qualcosa che si dà una volta per tutte, come ha detto Luzi, ma un incontro continuo, una richiesta alla realtà di farsi “carne”. Posizione che si chiarisce sempre di più e trova una cristallina testimonianza in una poesia dell’ultima stagione:
Ciò che occorre è un uomo,
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in ispirito e verità;
non un paese, non le cose,
ciò che occorre è un uomo,
un passo sicuro, e tanto salda
la mano che porge che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi, e salvarsi.