Metamorfosi e paradosso della conoscenza in Caproni

Caproni visse soprattutto in tre città: a Genova, a cui sentiva di appartenere di più, a Livorno, dove nacque, e a Roma. Egli è dunque un italiano tirrenico, del versante occidentale della Penisola, quella del tramonto e del mare più ampio e profondo. E se si può difficilmente dimostrare un rapporto diretto, non solo in Caproni, dei luoghi geografici dell’autore con l’opera, altrettanto indimostrabile è la loro completa estraneità. In effetti la poesia di Caproni è soprattutto serale e persino notturna; il clima generale, fino ai movimenti più ampi e poematici della caccia, è quello del crepuscolo di un’epoca e della nostalgia, del non essere più in un tempo e in un luogo. Dell’aver perduto la luce. C’è traccia esplicita di questo nel primo esempio che citiamo: nella sua raccolta iniziale, Come un’allegoria, Caproni riunisce poesie dei primi anni Trenta, poesie di una voce trasparente, equilibrata, già mature nonostante i vent’anni e poco più dell’autore. Ma dentro il tono bilanciato e controllato, che in una delle poesie migliori parte addirittura dal ricordo, vibrano già un’inquietudine ed un’intensità che si esprime “nell’ora in cui l’aria s’arancia”, un impeto “di meraviglia” davvero giovane e serotino insieme; un fervore che riconosciamo soprattutto nello sguardo, col suo tentativo di scorgere la metamorfosi nel mondo e nella natura nell’ora in cui anche la luce e i colori mutano, per leggere il reale effettivamente “come un’allegoria”:

Ricordo

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell’ora in cui l’aria s’arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l’arcata del cielo.

Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.

Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.

La metamorfosi è un primo campione di quella che si rivelerà come una tecnica complessiva di pressione sulle immagini in direzione di un tentato ampliamento della conoscenza. Lo vedremo ad esempio in un accenno che riguarda le Stanze della funicolare. In questa prima poesia –e fase- la ricercatezza dei suoni (antica / romita, aria / s’arancia / scheggia / arcata / stanca, ferveva / vedere) -più assonanze che rime- il loro ripetersi all’interno del testo, non sono solo preludio a quella che Mengaldo ha definito “la terza stagione” di Caproni, quella finale, in cui rime e assonanze si rincorrono in spazi strettissimi e sono l’esca fondamentale del senso; esse testimoniano anche il finissimo orecchio musicale del poeta, che studiò violino e suonò a lungo, e soprattutto cercò sempre nella lingua della poesia una musica e un ritmo che corrispondessero intimamente a quelli uditi nel mondo, l’attingere a un’armonia che il pensiero non riusciva altrettanto bene ad individuare. I sensi accesi completamente, come in questa poesia ancora notturna, trattengono dunque il ricordo non solo di un’armonia, ma di una bellezza totale, del corpo e dell’anima, “il vento” di un passaggio che ha acceso, in un luogo o in un corpo, la conoscenza del vero. E anche qui ritroviamo un gioco di luci e una mutazione finale.

San Giovambattista

Tersa per chiari fuochi
festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo.

Intorno a un falò d’estate
imita selvagge grida
uno stuolo di bimbi.

S’illuminano come esclamate,
ad ogni scoppio di razzo,
le chiare donne sbracciate
ai balconi.

(Voci e canzoni cancella
la brezza: fra poco il fuoco
si spegne. Ma io sento ancora
fresco sulla mia pelle il vento
d’una fanciulla passatami a fianco
di corsa).

La ricchezza lessicale e quella della similitudine saltano agli occhi: “S’illuminano come esclamate (…) le chiare donne sbracciate/ai balconi”. Una ricchezza che andrà allargandosi nelle raccolte centrali, con testi basilari dell’opera di Caproni, come nel citato Stanze della funicolare. In esse Giovanni Raboni, che le considera il “luogo centrale e irradiante” di tutto l’opera caproniana, si è divertito a cercare i diversi termini con cui l’autore ha voluto indicare la funicolare stessa. Eccoli, secondo l’elenco di Raboni: funicolare, arca, barca a fune, barca, furgone, carro, funivia, corda. Una molteplicità e varietà che rimandano a un movimento continuo, ad una metamorfosi, come si diceva, dell’oggetto e dell’immagine, ad una ricchezza di tentativi che l’autore deve fare per sviscerare una conoscenza. Suoni, lessico e metrica sono in Caproni lussureggianti e calibrati allo stesso tempo. Testimoniano della complessità e bellezza dell’essere e del mondo.
Contemporaneamente, però, Caproni s’accorge del muro che impedisce la presenza piena e completa della bellezza e della verità. Muro primo che è la morte, soglia estrema oltre cui non è consentito andare. Questa coscienza sembra prendere sempre più spazio col passare degli anni e dei volumi, soprattutto dopo i Cinquanta e la raccolta Il seme del piangere, in cui compaiono quei lucidi e assieme visionari (lucidi nella visione?) Versi livornesi dedicati in gran parte alla morte di quella straordinaria figura letteraria, oltre che umana, che è la madre-fidanzata di Caproni: Anna Picchi.

Preghiera

Anima mia, leggera
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

Il viaggio alla scoperta del dopo, là dove solo la visione può tentare una preghiera, si spingerà fino ai suoi confini, diventando assurdo e aprendo all’estrema forzatura di Caproni che è il paradosso. Nella raccolta Il muro di terra esplode così la particolare religiosità del poeta di fronte all’incessante bisogno di Dio, contemporaneo all’ineluttabile constatazione della Sua assenza. Proprio in una poesia di questa raccolta è presente l’espressione tante volte citata come esemplare della posizione di Caproni.

I coltelli

“Be’?” mi fece.
Aveva paura. Rideva.
D’un tratto, il vento si alzò.
L’albero, tutto intero, tremò.
Schiacciai il grilletto. Crollò.
Lo vidi, la faccia spaccata
sui coltelli: gli scisti.
Ah, mio dio. Mio Dio.
Perché non esisti?

“Mio Dio, perché non esisti” è il segno di un’impasse culturale, filosofica, religiosa che è personale e storica, forse uno dei crismi del Novecento. Il desiderio di una verità universale, un destino certo, una conoscenza definitiva (Dio) è vivo e vegeto e forte, ma anche interrotto da un’impossibilità implicita a raggiungerlo. In modo simile riprendeva il tema il grande scrittore svedese Pär Lagerkvist, premio Nobel per la letteratura nel 1951, in una poesia in cui dice:

Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?

Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?

“Esiste la meta ma non la strada” diceva Kafka. Nel paradosso caproniano rivive lo stesso blocco, una sorta di sospetto che ha investito la cultura occidentale del suo e nostro tempo. Il contesto in cui allora la poesia si muove è quello di un duello: un duello metafisico, terribile e ingiusto, in cui il vincitore prega Dio, o il suo vuoto, che forse è nel vento e che è persino il segnale che dà il via allo sparo. E, assieme al grilletto, scatta tutta l’assurdità di una situazione, o migliaia di situazioni, senza giustizia e senza significato. E scatta il paradosso. Esso ha in Caproni valenze diverse, a seconda del periodo, dell’intenzione e della visione del mondo che via via va compiendosi. Il ventaglio delle possibilità nell’uso del paradosso è infatti assai ampio e va dall’atteggiamento distruttivo e nichilista (“Pensiero fisso:/il vero debellatore/di Dio, è lui, il Crocifisso?”) che sembra accogliere le istanze delle linee coeve di più forte pressione filosofica, ad un dispositivo che, in generale, cerca di forzare la conoscenza per dar spazio a inedite opportunità gnoseologiche. Lo stesso paradosso che condurrà Caproni nella raccolta successiva, Il franco cacciatore, a spingersi fino all’ultimo borgo, ma vanamente. E con la comparsa sempre più forte di quell’apparato ironico e amaro che è una caratteristica spiccatamente tipica della poesia caproniana, persino la guida, che “non mente”, condurrà il viaggiatore (notare l’infittirsi delle assonanze) al niente.

L’ultimo borgo

S’erano fermati a un tavolo
d’osteria.
La strada
era stata lunga.
I sassi.
Le crepe dell’asfalto.
I ponti
più d’una volta rotti
o barcollanti.

Avevano
le ossa a pezzi.
E zitti
dalla partenza, cenavano
a fronte bassa, ciascuno
avvolto nella nube vuota
dei suoi pensieri.

Che dire.

Avevano frugato fratte
e sterpeti.
Avevano
fermato gente – chiesto
agli abitanti.

Ovunque
solo tracce elusive
e vaghi indizi – ragguagli
reticenti o comunque
inattendibili.

Ora
sapevano che quello era l’ultimo borgo.
Un tratto
ancora, poi la frontiera
e l’altra terra: i luoghi
non giurisdizionali.

L’ora
era tra l’ultima rondine
e la prima nottola.
Un’ora
già umida d’erba e quasi
(se ne udiva la frana
giù nel vallone) d’acqua
diroccata e lontana.

Indicazione sicura o:
bontà della guida

(Al forestiero
che aveva domandato l’albergo)

Segua la guida,
punto per punto.
Quando avrà raggiunto
il luogo dov’è segnato
l’albergo (è il migliore
albergo esistente)
vedrà che assolutamente
lei non avrà trovato
-vada tranquillo- niente.

La guida non mente.

Tornano qui diversi tratti tipici di questa opera: l’ora serale, la precisione e la ricchezza dei particolari del viaggio, per nulla trascurato dal racconto, la stoccata finale. E soprattutto l’assottigliarsi del numero degli elementi coi quali il poeta decide di giocare la sua partita: poche parole, versi brevi, rime limitate. Caproni va pian piano raffinando il suo stile unico e nuovo e lo fa aumentando i limiti, lo spazio linguistico entro cui muovere le sue mosse. Ancora una volta in modo paradossale, limitando gli strumenti è come se volesse aumentare la possibilità di far scaturire con precisione il senso. Così nell’ultima fase, da Il Conte di Kevenhüller degli anni Ottanta fino a Res amissa, l’ultima raccolta, il poeta giunge ad una grande lucidità e stringatezza di stile. Ma arriva anche ad una concitazione da cacciatore che trasforma l’oggetto della conoscenza in “preda” -“Andavo a caccia. Il bosco/grondava ancora di pioggia./M’accecò un lampo. Sparai./(A Dio, che non conosco?”)- e che tiene contemporaneamente conto di un raffinatissima ed implicita partitura ritmica e sonora, una sorta di cavalcata sinfonica sincopata ed epigrammatica.

La sua instancabile ricerca della verità e della conoscenza qui diventa nitida e senza remore fino ad una sardonica tragedia, la sua musica precisa e quasi matematica, il ritmo livido e scoccante, la rima “sempre in me battente”, la volontà assoluta. Tanto assoluta da denunciare una “tagliola”, una paura dell’inganno delle risposte. In questa tagliola ritorna probabilmente quello che si scorgeva come atteggiamento prevalente che l’uomo del Novecento ha verso la conoscenza. La rivoluzione della modernità, rovesciando l’antropologia europea dopo duemila anni, è stata una rivoluzione della conoscenza ed ha lasciato come retaggio l’agguato del sospetto. La sottile linea che demarca la differenza tra la domanda come sete di sapere e il “dubbio”, vero feticcio della cultura contemporanea, è l’ombra del sospetto. In questo modo le certezze diventano le trappole (tagliole) del potere e la rivoluzione prende il posto della tradizione. Proprio questa idea della tagliola ritorna alla fine di un testo della stessa raccolta caproniana; un testo strano ma ricollegabile proprio ad una filiera novecentesca spia di tale atteggiamento. Si intitola “Mancato acquisto”.

(Sul grave
ma appena).

Entrai dal mio già abituale
fornitore, dopo
non so che lunga assenza.

Tutto era mutato.

Quasi
non riconoscevo il locale.

Nessuno al banco.

Diedi
una voce.

Aspettai.

Aspettai a lungo.

Battei,
fuor di pazienza, le mani.

Apparve (sulla trentina,
di strano colorito) un tizio
(certo, di razza non latina)
da me mai prima visto
né conosciuto.

«Mi chiamo»,
mi fece, «Gesù Cristo.

Da tempo qui è cambiata gestione.

Venni con mio padre.

Sono anni.

Mio padre è morto.

Ora,
come voi stesso vedete,
son solo nella conduzione
dell’esercizio.

Comunque,
eccomi a voi.

Chiedete,
e cercherò d’esser pronto
a soddisfarvi.

Il conto
non vi preoccupi.

È un pezzo
che, specie s’è alto il prezzo,
ormai uso far credito.

Ditemi.

Salderete
come e quando vorrete».

…..

Lo guardai.

Crollai il capo.

Aveva pur parlato,
è indubbio, a chiare e oneste note.

Ma allora, perché uscii a mani vuote? …

Varianti alternative:

Ma allora, perché uscii a mani vuote,
senza aver spiccicato
nemmeno una parola? …

Temevo quale tagliola? …

Lo strano “Gesù Cristo” che il protagonista incontra al banco in un non meglio specificato locale si inserisce in realtà in una tradizione anch’essa novecentesca di reinterpretazione della Sua figura: si pensi, ad esempio, al personaggio di Cristo che dialoga con Pilato nel romanzo Il maestro e Margherita dello scrittore russo Bulgakov. Anche in quel caso si tratta di una figura modesta, che non vuole essere condannato perché non vuole essere il messia, come se tutta la vicenda dei Vangeli fosse un equivoco. In Caproni abbiamo un Gesù modesto, che non ha pretese in nessun senso, certo neppure in quello religioso. Ma se spesso la metamorfosi della figura di Cristo nell’arte e nella letteratura del Novecento ha avuto lo scopo di allontanarlo da quello della tradizione cristiana e soprattutto cattolica, fino a livelli volutamente satanici di distorsione e sfregio del Suo volto, non c’è ovviamente nulla di diabolico in Caproni. Anzi, a ben guardare, qui non si parla neppure di Cristo, ma dello stato del Cristianesimo, che per l’autore non risponde più alle esigenze dell’uomo contemporaneo perché il Padre –l’origine, il senso, l’assoluto- è morto. L’accezione sociologica di Dio lascia Caproni “a mani vuote”: la realtà misteriosa da cui sente di dipendere, e che lo induce al viaggio e alla caccia perfino di fronte al paradosso della sua eventuale inesistenza, è indispensabile. La sua assenza lascia senza parole, ed è un’assenza dovuta al sospetto che si è esteso su tutta la conoscenza dell’uomo contemporaneo. Essa lo condanna ad un’unica “indicazione”, in cui l’essere è in un non-luogo (“Smettetela di tormentarvi. / Se volete incontrami / cercatemi dove non mi trovo. // Non so indicarvi altro luogo”). La lotta interna all’io, inteso come crocevia tra l’essere e il nulla, trova in quest’ultimo esito la sua paradossale risposta, ma la tagliola a questo punto si espande alla poesia stessa, agli strumenti, al mezzo assoluto del poeta ed è, nel testo a lei intitolato, la parola stessa.

La parola.
La tagliola.

Occhio!
Sono una cosa sola.

Le parole

Le parole. Già.
Dissolvono l’oggetto.

Come la nebbia gli alberi,
il fiume: il traghetto.