di Gianfranco Lauretano
La responsabilità del poeta non è di fronte a ciò che dice e che comunque gli è suggerito dalla sua esperienza, dalla tradizione di appartenenza e dal suo tempo storico, il quale si occuperà di confutarne o farne durare il messaggio: la responsabilità del poeta è di fronte alla parola e alla lingua. Questo suggerimento ci arriva senz’altro da Petrarca, poeta disdetto dai poeti italiani del Novecento che fanno tutti i dantisti salvo poi assomigliare assai di più a Petrarca, se non altro perché Dante è quasi assolutamente incomprensibile. Il meccanismo di somiglianza tra la lingua e il tempo è ben narrato da Petrarca, che rende classica la sua stanchezza, tentando di fermarla e sapendone l’impossibilità. “Stanco omai” è infatti nel celebre sonetto in cui ci parla del tempo: “La vita fugge, et non s’arresta una hora,/et la morte vien dietro a gran giornate,/et le cose presenti et le passate/mi danno guerra, et le future anchora”. Eppure quanto abbiamo guadagnato dalla sua stanchezza e malinconia, che oggi disprezziamo forse perché così tanto ci assomigliano!
Petrarca ha fondato la nostra identità linguistica in modo così perentorio che per secoli ne abbiamo tratto giovamento e continuiamo a trarne. E non solo i poeti, anche se tutti sappiamo che senza Petrarca non avremmo avuto Foscolo, Leopardi, Pascoli, Montale, Sereni…ma tutti, tutti, anche coloro che non ne hanno mai sentito parlare eppure parlano l’italiano, come possono e sanno. Ciò vale soprattutto per l’Italia, dove l’origine della lingua nazionale ha un’impronta spiccatamente letteraria e poetica. Che poi il petrarchismo abbia portato a storture, alla lotta ai dialetti, ad esempio e alla lingua del popolo, è un’altra questione, troppo sociologica per poterne parlare qui diffusamente. Ma, insomma, occorrerà anche smettere di dare tutta la colpa ai Savoia, dopo oltre centoquarant’anni, e cominciare a chiederci se la nostra afasia sociale non sarebbe venuta oggi lo stesso, anche se fossimo rimasti dialettofoni, e se non sia colpa anche di quel miscuglio di consumismo e comunismo che siamo diventati.
Un amico poeta di Forlì, Gianfranco Fabbri, sta in questi giorni recuperando il Sessantotto che ha vissuto da giovane leggendo tutti i numeri del Corriere della Sera di quell’anno cruciale. Mi racconta che erano articoli linguisticamente squisiti, correttissimi e ricchi nella lingua in cui erano scritti, stilisticamente godibili e pregiati, di una piacevolissima lettura anche dal punto di vista formale. Ma guarda un po’, Petrarca viveva anche negli articoli giornalistici. Se penso a oggi…Petrarca ci aveva educato come popolo fornito una lingua raffinata e varia, dotata di un “poliglottismo minimale e classicistico” con i suoi versi talvolta un po’ violenti, per “noviziato dantesco”, più spesso “liquidi” e “ineffabili”. Sono tutti virgolette da Contini.
Noviziato dantesco persino tenuto nascosto. È assai noto l’aneddoto della visita di Boccaccio alla biblioteca di Petrarca, tra le migliori del suo secolo e di molti secoli successivi: finito che ebbe Petrarca di illustrare a Boccaccio tutti gli autori presenti e le loro mirabili opere, quest’ultimo chiese stupito: “E Dante? Non c’è Dante…”. Petrarca rispose vagamente, affermando che troppo lavrebbe influenzato. Giunto a casa Boccaccio copiò per Petrarca l’intera Divina Commedia e gliela fece avere (il codice di questa copia ci è rimasto, come si sa…).
Avverto la sensazione della decadenza della lingua persino quando guardo un film italiano degli anni pre o post-bellici, anche e soprattutto nel doppiaggio da film stranieri. Certo, era un bel modello, per un popolo la cui unità è stata imperniata, fino a non troppi decenni fa, non sulla lingua ma sul cattolicesimo. Oggi abbiamo perso la fede e Petrarca. Se non capiamo più Dante perché la sua sensibilità religiosa ci è estranea, non capiamo più Petrarca per gli stessi motivi di sensibilità linguistica. È un peccato, perché l’entrare dentro questo mondo linguistico è di un gusto ineffabile, appunto.
Insomma, la bellezza inconfutabile e persino misteriosa della lingua italiana ha avuto il suo compimento, tra Trecento e Ottocento, in una lingua non parlata, se non in qualche salotto, in una lingua letteraria e poetica, quasi esclusivamente, la lingua di Petrarca. Come sia stato possibile che questa lingua vivesse per mezzo millennio senza quasi un popolo sarà sempre oggetto di inesaurienti indagini, al confine con la sociologia. Ma è un fatto che sia esistita, come esperienza nella poesia di Petrarca e come modello per tanti poeti persino grandi (e persino nostri contemporanei, sebbene non lo ammettano) per secoli. Sul suo futuro non mi chiedo niente, perché non ritengo molto interessante il destino di una lingua. Del suo passato fatico a non ritenermi figlio e lettore fortunato, se ancora oggi posso in qualche modo gustarne i frutti.