Aleksàndr Sergéevic Puškin, Il cavaliere di bronzo – Racconto pietroburghese

“…il potente Maligno
Golia invisibile”.
Efrem il Siro

C’è qualcosa d’inoffensivo nei classici, diceva Pavel Florenskij a proposito di Puškin, notando come negli anni Trenta fosse ristampato in gran quantità in Unione Sovietica. Florenskij rilevava amaro che questo è il modo che ha il mondo (ovvero il potere) di rapportarsi con i poeti, e gli uomini liberi: quando sono in vita cerca di ucciderli, quando sono morti fa loro il monumento. Perché leggere i classici in un certo modo, edulcorati da un tramite (scuola o critica) floscio o compiacente, è un po’ come esorcizzarli e, nello stesso tempo, sgravare le coscienze, avendo combattuto la loro verità quando la persona o l’opera erano ancora vitali. Ma i classici compiono una loro segreta vendetta. Se essi durano oltre il potere che li ha combattuti/sostenuti, è perché continuano a provocare, a rompere gli schemi, i “canoni” che contribuiscono anche a istituire. Il potere li ingabbia, li chiude in uno schema e loro, zac!, alla prima distrazione riprendono a parlare, a dire di noi, della nostra verità e libertà.

Questa sorte è toccata anche a Puškin e a quello che è l’ultimo dei poemi da lui scritti, Il cavaliere di bronzo. È un’opera talmente critica nei confronti del potere che l’autore non la pubblicò mai in vita sua, certo che la censura zarista non lo avrebbe permesso. Vi s’instaura una lotta tragica tra l’individuo (l’impiegatuccio Evgenij) e il potere gigantesco, quasi divino dell’imperatore, simboleggiato nella grande statua equestre di Pietroburgo, il cavaliere di bronzo appunto.

San Pietroburgo è la città voluta dallo zar Pietro il Grande e da lui fondata trecento anni fa sul Mar Baltico, su quella foce del fiume Nevà che costituiva l’unico sbocco settentrionale sul mare, ottenuto dai Russi dopo secoli di guerre. È costruita secondo schemi, volontà e progetti precisi, per dare un impulso europeo e occidentale alla Russia, contro il volto asiatico che costituisce da sempre l’altra metà dell’anima russa, col quale dà vita a quel contrasto intestino che è tipico della Russia e che non finirà mai. Ma l’enorme potere dello zar, che sposta la capitale da Mosca alla foce di un fiume nordico, soggetto ad alluvioni ad ogni primavera, nulla può contro la natura; lo afferma esplicitamente lo stesso Pietro che a tratti Puškin fa parlare nel poema.
La costruzione di San Pietroburgo costrinse al lavoro in condizioni impossibili migliaia di uomini e non solo: anche viverci, a costruzione ultimata, non doveva essere semplice per il popolo, che ad ogni alluvione rischiava di perdere la casa, i negozi e gli averi. L’alluvione è l’imprevisto prevedibile, di fronte alla cui evidenza l’ottusità del potere è distratta e cieca perché a rimetterci è sempre il suddito. Tutto ciò che appariva bello e solido, così come viene presentato nel proemio, è spazzato via dall’imprevisto della storia, che in un attimo distrugge gli schemi, i bastioni, le finte garanzie del potere. In questa lotta la persona, per Puškin, è schiacciata e distrutta. Il romantico e neoclassico, byroniano e shakespeariano Puškin, che si aggrappa poeticamente alle forze dell’individuo e della natura, ha una visione tragica del destino della persona di fronte alla violenta e gigantesca volontà del potere.

Anche di questo Il cavaliere di bronzo è efficace ed affascinante metafora. È la questione eterna e così drammaticamente attuale del rapporto tra l’uomo e il potere. C’è un punto preciso nel poema da cui inizia la disgrazia dell’uomo Evgenij: quello in cui comincia a far progetti, a sistemare il futuro suo e della sua fidanzata. Si noti che è l’unico punto in cui Puskin fa parlare il protagonista e da lì inizia la sua tragedia. Quando la persona è sconfitta? Quando assomiglia al potere. Quando come quello pretende di ingabbiare la vita e di schematizzare il tempo. E nel farlo afferma, come il potere, la sua autosufficienza e autoreferenzialità. La fiducia di Evgenij nelle sue forze e nelle sue capacità viene d’un colpo spazzata via dall’alluvione e lui muore. Il potere lo ha reso presuntuoso e, intrinsecamente, solo si fronte all’imprevisto. Il rapporto che s’instaura tra la statua di bronzo di Pietro il Grande e Evgenij ormai impazzito è gotico e mostruoso, è un non-rapporto tra due solitudini, tra due autoreferenzialità che il mistero degli avvenimenti naturali distrugge. Il potere, secondo Puškin, ci fa fuori facendoci credere capaci di guidare il nostro destino con le nostre forze solitarie e perdenti.

Aleksàndr Sergéevic Puskin

Il cavaliere di bronzo

Racconto pietroburghese

Proemio

Lui stava su una riva di onde deserte,
immensamente pensieroso
e con lo sguardo lontano. Il fiume scorreva
largo lì davanti; una povera barchetta
vi si affrettava solitaria.
Sulle rive paludose in mezzo al muschio
nereggiavano le isbe qua e là
riparo per il finno miserabile;
e il bosco, sconosciuto ai raggi
di un sole avvolto dalla bruma,
stormiva tutt’intorno.

E pensava:
«Da qui minacceremo gli svedesi
qui sarà fondata una città
provocazione per il vicino superbo.
Qui dalla natura siamo stati destinati
a spalancare una finestra sull’Europa

e a mettere sul mare un piede saldo.
Qui, attraverso rotte nuove per loro,
le flotte ci saranno ospiti
e in piena libertà faremo festa».

Passarono cent’anni e la giovane città
vanto e potenza del settentrione
sorse superba e sontuosa
dai boschi bui e dalle paludi;
dove prima il pescatore finlandese,
triste figliastro della natura,
da solo dalle basse rive
gettava nelle acque sconosciute
la sua vecchia rete, adesso, proprio lì,
sopra sponde piene di vita
si addensano le moli edificate
di palazzi e di torri; vascelli
a frotte da tutto il mondo
arrivano di corsa ai ricchi scali;
la Nevà si è vestita di granito;
ponti s’inarcano sulle acque;
le sue isole si sono ricoperte
di giardini di colore verde scuro
e di fronte a una più giovane capitale
si è oscurata la vecchia Mosca
come davanti a una nuova imperatrice
la vedova in veste porporina.

Creatura di Pietro ti amo,
amo il tuo aspetto severo e armonioso,
il maestoso corso della Nevà,
il granito delle sue rive,
il ricamo in ghisa delle cancellate,
il pallido crepuscolo e lo splendore illune
delle tue notti malinconiche
quando scrivo nella mia stanza,
leggo senza lampada
e le moli addormentate sono chiare,
le strade deserte, la guglia
dell’Ammiragliato luminosa,
e un’alba dà in fretta il cambio
all’altra, tenendo lontano
dal cielo dorato le tenebre notturne,
lasciando soltanto mezz’ora alla notte.
Del tuo rigido inverno amo
l’aria immobile ed il gelo
il corso delle slitte sulla larga Nevà
i visi delle ragazze più accesi delle rose
e lo splendore lo schiamazzo il vocìo dei balli
e, all’ora dei festini per gli scapoli,
il frizzare delle coppe spumeggianti
e la fiamma azzurra del ponce.
Amo l’animazione guerriera
per la parata del Campo di Marte
la compatta bellezza
delle schiere di fanti e dei cavalli
nel loro ordine ondeggiante e regolare
i brandelli di quelle insegne mai vinte
lo splendore di certi elmi di rame
forati in battaglia dalle pallottole.
Bellicosa capitale, amo il fumo
e la detonazione della tua fortezza
quando la nordica sovrana
genera un figlio nella dimora imperiale,
o la Russia celebra di nuovo
una vittoria sul nemico
o, frantumato il ghiaccio azzurro,
la Nevà lo trasporta fino al mare
ed esulta, pregustando la primavera.

Sii orgogliosa, città di Pietro,
incrollabile come la Russia
e si pacifichino con te
gli elementi ingabbiati;
l’odio e la loro antica cattività
possano scordare le onde finlandesi
e un’inutile rabbia non disturbi
l’eterno sonno di Pietro.

Venne un giorno terribile,
di cui il ricordo è fresco…
Da esso per voi, amici,
voglio cominciare a raccontare.
Ma la mia storia sarà triste.
Vedi i versi del principe Vjazemskij alla contessa Z***.